sabato 2 aprile 2016

Vodka Lemon Tree

Mescolo il ghiaccio nel peggior vodka lemon che mi sia mai capitato di bere e cerco di fare attenzione alle parole che i gemelli Simone e Samuel mi dicono. Sto davvero cercando di concentrarmi ma qualsiasi loro parola è sovrastata da un assordante e imprescindibile dubbio: chi dei due è questo?
Raccontano di essere miei fan e che spesso si chiedono quando uscirà un nuovo post del mio blog, magari in cui potranno essere citati. Questo incoraggiamento mi risveglia come da un torpore. Forse la vodka di pessima qualità e la monogamia degli ultimi tempi mi hanno fatta spegnere?
Mando giù i dubbi e un altro sorso e decido di fare mente locale su cosa è successo negli ultimi sette mesi.
Dopo un’iniziale euforia settembrina da ritorno e un autunno all’insegna di sostanze illegali in Italia (ma sicuramente legali in un paio di stati americani) e del volontariato, ho deciso che Torino è il posto in cui voglio stare.
Ormai la lezione di Seneca l’ho imparata e in tutta onestà non voglio dover cambiare barista del cuore compagnia ogni sei mesi.
Poi un’ansietta - che più che un’ansietta era una voglia di assumere lexotan - ha fatto capolino.
Forse, per quanto io sia convinta di essere una donna completa e consapevole, non sono altro che il risultato di un’unica, fondamentale, scelta: quella del partner.
Ma lasciate che mi spieghi meglio.
Forse non conta nulla che io vada al cinema da sola o mi masturbi pensando a Simone de Beauvoir, perché quello che mi determina davvero è la persona con cui mi accoppio. Dal secondo appuntamento in poi scatta un meccanismo per cui qualsiasi interesse coltivato in precedenza viene dimenticato e mi evolvo in una first lady festaiola,  un supporto morale e reggi cocktail, una ragazza - nel senso di fidanzata - immagine.
Mi dimentico della lezione di yoga del venerdì, del circolo dei lettori, abbandono i gruppi whatsapp e non rinnovo l’abbonamento a Internazionale. Neanche l’oroscopo conta più, perché né io né Rob Brezsny abbiamo il diritto di dirci cosa fare durante la prossima settimana.
Ancora non so se sia colpa del retaggio culturale o dell’inconsistenza dei miei hobby e di certo non saprò mai distinguere due gemelli monozigoti, quello che so è che devo smetterla con l’alcol di bassa qualità.

lunedì 24 agosto 2015

Etty Hillesum

L'avidità con cui divorano -che sia al sangue godverdomme!- carne di animali in così poco dissimili da quelli che montano, nutrono, amano e per cui spendono milioni, mi dà il voltastomaco. Sopportano me e i loro figli come si sopporta la calura ad agosto o una puntura di zanzara: per forza.
Passo ore intere in silenzio a subire una lingua che non conosco, ad osservare la morte lenta delle vespe per affogamento nello champagne: la stessa fine che in un inferno dantesco farebbero loro, se solo dio esistesse. Quello che mi pesa di più, però, più che l'essere ignorata o che sbaglino la pronuncia del mio nome quando parlano di me credendo che non me ne accorga, è la magnanima autorità con cui mi impartiscono ordini: come se fossi povera, come se avessi bisogno di questo lavoro.
Non sanno perché io sia qui, non sanno che non lo so neanche io. Per riconquistare la mia indipendenza? Suppongo di sì, oppure, più semplicemente, un modo come un altro per sopravvivere ad agosto.
Ma quanto ci mette una vespa ad annegare? Lo stesso tempo che ci mette un cavalluccio marino ad accoppiarsi e io a ritrovare il filo del discorso.
Più che genitori, questi, sono proprietari di cani. Il drammatico problema dei proprietari di cani è che cercano inutilmente di trasformarli in uomini. Non capiscono che dovrebbe accadere il contrario, ossia dovremmo noi essere più simili a loro.
Ecco, quella che si è persa, soprattutto in questi ambienti, è la genuina animalità che dovrebbe dominare le nostre azioni. Dovremmo essere prima di tutto corpo, istinto, sopravvivenza. Che poi sono le stesse stronzate che scriveva Etty Hillesum nel suo diario, stronzate che ora ricorderei se solo avessi studiato per l'esame di pedagogia generale.
Cerco di ricordarmi di questi insegnamenti, ormai di certo annegati in tutti gli spritz di questi ultimi anni, mentre salto sul giocattolo preferito dei bambini ricchi nell'europa evoluta, quella dove non hanno il sole e il mare: il trampolino elastico.
"Springen!" mi urla senza sosta la mia padrona. Crede che sia la sua schiava, e a dire il vero la capisco. Provavo lo stesso sentimento di pietà e pieno potere nei confronti delle mie ragazze alla pari slave. Dicevo a scuola che i miei genitori le avevano salvate dalla miseria dei paesi fatti di sole consonanti da cui provenivano, permettevano che vivessero a casa nostra e addirittura elargivano loro centomila lire la settimana.
Con forza e sottomissione obbedisco, spingo i piedi verso il basso, alzo gli occhi e vedo le oche selvatiche nel campo dietro casa. L'elastico del trampolino mi riporta su e ora quelle oche sono alpacha nel deserto cileno. Chiudo e riapro gli occhi, il vento dritto in faccia, e sono suricata nella savana. Viaggiare è questo, penso, non sapere dove si è, ma essere. Liberi. Ancora un salto e sono a casa.

sabato 14 febbraio 2015

CICLAMINO

No, non vi stupirò con un post ironico e metaforico in cui vi rivelo che nella top 3 della mia scala degli affetti c'è il mio ciclamino, che lo amo alla follia e presto andremo a convivere.
Né vi farò autocompiacere della vostra relazione - basata su emoticon ironiche, graphic novel di Gipi e tè organico di Eataly - lamentandomi di come chiunque con cui abbia provato ad avere un rapporto nell'ultimo anno sia scappato a gambe levate o mi sia stato rubato da quell'amica russa e ninfomane.
Meno che mai mi lancerò in una scontatissima critica a questa festa commerciale il cui unico scopo è arricchire la Lindt e i fiorai, perché non ho più tredici anni e ho smesso di credere che la globalizzazione sia il male del mondo in terza media.
La verità è che per quanto essere una donna indipendente possa far piacere a mia madre, mi permetta di sgaggiarmela sui social network e di limonare con sconosciuti ogni venerdì sera, sento di aver bisogno di prendermi cura di qualcuno.
Ho pensato di adottare un australian shepherd cieco e sordo e portarlo al Bunker con me a ballare la techno, poi hanno chiuso il bunker e mi son resa conto di non essere ancora pronta per un cane: quello arriverà quando avrò trent'anni; si chiamerà Filippo e sarà il mio tentativo – crudelmente negato dal mio ovaio policistico - di avere un figlio. Senza contare che a un cane non puoi scroccare la droga.
Non posso nemmeno continuare a mandare selfie ironici ai miei ex, ho bisogno di qualcuno che ci si masturbi li apprezzi appieno o per lo meno la cui ragazza non conosca la password di Facebook.
Insomma credo di aver bisogno di qualcuno con cui guardare Masterchef,  a cui mandare le mie imitazioni di Maria Antonietta su whatsapp ed avere conversazioni pretenziose.
Perché come a qualunque ragazza bianca e borghese, anche a me è stato fatto credere che la forza che muove il sole e l'altre stelle, che ti permette di andare al concerto degli Alt-j con qualcuno e ti fa sopportare che ti schiaccino i brufoli sulla schiena, è proprio l'Amore.

Dopo anni di singhiozzi nel cuscino, di bigliettini sotto il banco, di smsgratisversovodafone e altre inutili frustrazioni ho capito che semplicemente le relazioni non sono il mio forte. 
Ho capito che al cinema ci posso andare anche da sola e che non ho bisogno di « quello giusto » per fare sesso. Ho addirtittura scoperto di non aver bisogno di un altro per avere un orgasmo!
Perché ho finalmente realizzato che ci sono altri tipi di forze che danno un senso all'esistenza, ti fanno alzare dal letto ogni mattina e fanno credere nel domani. Che siano le serie tv, la pianta di ciclamini da innaffiare o i tutorial di cliomakeup.
Sono giunta alla conclusione che il mio bisogno di prendermi cura di qualcuno non è nient'altro che un retaggio evoluzionistico, ché non c'è niente di cui abbia veramente bisogno che non possa trovare in me stessa. 
A parte, ovviamente, quando si tratta di brufoli sulla schiena.


giovedì 6 novembre 2014

I wanna comb his beard, CHET FAKER @CLUBTOCLUB

Vincere qualcosa è di per sé abbastanza gratificante, quando poi si tratta di biglietti per un concerto di Chet Faker (biglietti che peraltro non erano in vendita singolarmente ma solo parte del forfait-da-ricchi Club to Club) questa è l'esperienza più vicina alla beatitudine che un essere umano possa provare.


Così mi sono ritrovata su un 18 a trangugiare birra del discount 8.5 e a cercare di calmarmi e darmi un tono da blogger prima di raggiungere l'Hiroshima.
All'ingresso, scopro che il mio nome è in lista con un +1 accanto e quindi non devo nemmeno litigare per far entrare a sgamo il pischello americano che mi accompagna. Mentre gli spiego che no, non deve più fingere di essere il mio fotografo, ci buttano in mano due consumazioni a testa (a me accidentalmente 3) e questo mi fa presagire il peggio, presagio confermato una volta dentro, quando scopro che i bar sono stati trasformati in giganteschi stand dell'absolut vodka, che offrono 3 tipi di cocktail: vodka lemon, vodka lemon blu, vodka lemon zuccheroso.
In sala majakovskij, sul palco ma leggermente defilato, c'è un dj dall'aria mediterranea. Mi avvicino e scopro che è quello del Doctor Sax: Wood Step. Mentre pompa timidamente nelle casse, io mi guardo intorno e mi accorgo di non aver mai visto quella sala così vuota, talmente vuota che la temperatura si aggira intorno ai 26 gradi, 20° in meno rispetto alla temperatura di un qualsiasi concerto degli Zen Circus.

                             Wood Step nel suo angolino
Oltre all'allarmante mancanza di pubblico, tutti sembrano avere un pass al collo o essere lì, come me, per aver vinto il contest.
Mentre mi abbandono a teorie complottistiche e viaggi vari, il mio accompagnatore mi urla nell'orecchio "looks like Portland". Attorno a noi un turbine di barbe, occhiali, beanie e camicie troppo abbottonate. Il problema fondamentale della massificazione, dell'omologazione e della globalizzazione in toto è il seguente: come faccio a sapere con chi di voi ho limonato all'Astoria se siete tutti uguali? Da quel momento in poi la serata è stata tutto un "Heyy ma te sei ***** del Mobbing Party?" "no".

                                    Lui non si chiama Alessandro
Sono le 23, secondo vodka-lemon-qualcosa e Chet Faker non si fa ancora vedere. Approfitto per andare in bagno, e ovviamente è in quel momento che il concerto inizia.
Chet Faker biascica e suona, e la folla lo acclama come a un concerto della bandabardò, nonostante dica cose piuttosto antipatiche. La scaletta non si allontana molto da quella casuale dell'app di Spotify ma lui è impeccabile. Fa letteralmente tutto, senza nemmeno il supporto di un MacBook, e ci piazza dentro pure l'improvvisazione.

                                 Chet Faker acconciato come un samurai
 In quel labirinto di barbe ne scorgo una conosciuta: è Johnny Fishborn. Parecchio ringalluzzito per l'effimero istante di celebrità commenta dicendo "è musica da sesso" e poi mi chiede affannato per quale rivista scriva.
                                   Johnny Fishborn che si diverte
Il concerto non dura molto, ancora soddisfatta per essere lì gratis mi bevo l'ultimo vodka lemon in quel bicchiere di lusso, che manco bisogna riportare al bancone in cambio di un euro, come è usanza all'Hiroshima Mon Amour e in qualsiasi bar di Berlino.
 

Decido di fare domande in giro, trovo due ragazze inglesi che urlano e si abbracciano e sicuramente si fanno anche un po' di pipì addosso e chiedo retoricamente se a loro il concerto sia piaciuto. Mi dicono di sì, dicono di amarlo ma non mi dicono perché e che vorrebbero pettinare la sua barba. Faccio loro una foto, che mi approvano solo al terzo tentativo perché nelle precedenti sembravano "troppo lesbiche".
                            "I wanna comb his beeeaaaardd"
Un pochino scoraggiata, approccio altre due ragazze dall'aria oltremodo hipster, sperando in una risposta deludente che potesse permettermi di fare la cosa che al mondo preferisco, ovvero umiliare le persone on line. Sorprendentemente sembrano preparate e dicono di aver apprezzato molto l'improvvisazione e il fatto che facesse tutto lui e tutto sul momento. Poi la conversazione si sposta sul "cosa studi-dove studi" e si parla inglese. Anzi non sono sicura che stessi ancora parlando con loro due.

                                   Ciao ragazze
Annebbiata dal mix vodka lemon-birra del discount mi chiudo in me stessa per un momento di sincera introspezione, e lo faccio accovacciata tra due macchine mentre cerco di non schizzare gli stivali appena comprati che dovrò indossare alla mia laurea. Ciò che ne deriva è uno scorrere lento e inesorabile di pipì che diventa metafora dei fluidi suoni della musica di Chet Faker e dello scorrere lento e inesorabile delle nostre esistenze.
                           La bozzza dell'articolo così come l'ho trovata stamattina

martedì 14 ottobre 2014

L'ELEFANTE NELLA STANZA


Il fatto che da alcuni giorni avessi voglia di ascoltare gli Smiths doveva essere presagio di cattiva sfortuna, o per lo meno di quel genere di cose insensate e inusuali che solitamente succedono a settembre. Ma anche ad ottobre, perché ormai le stagioni non iniziano e non finiscono più quando dovrebbero. Sebbene settembre non sia una stagione.
Fatto sta che il mio ex si sposa e sono d'accordo che possiamo intendere la storia come un serpente che si morde la coda, ma questi eterni ritorni mi stanno facendo pensare che il tempo, lo spazio, io stessa, la karma police, le stagioni, gli Smiths e tutto il resto non esistano.
È passato un anno e mentre Matty si trova a S
ão Paulo a bere caipirinha e mettere al dito di qualche brasiliana obesa un anello, io mi ritrovo al punto di partenza.
Un nuovo nuovo inizio in una vecchia università, l'autunno e la mia fatica di vivere.
Tra gli avvenimenti di maggiore rilievo di quest'ultimo periodo figurano l'aver cambiato l'immagine del profilo su facebook e aver scoperto l'eyeliner, per dire. Mi chiedo a questo punto se l'adolescenza finirà mai, se sia possibile una crescita.
Da piccola non avevo voglia di imparare a leggere l'ora con le lancette, sebbene ne riconoscessi l'importanza. "Queste sono cose che succedono da sé", mi dicevo, "senza che tu faccia nulla". Un po' come laurearsi, fidanzarsi o morire.
C'è un elefante molto grande in questa stanza che mi fissa, come a voler dire che dovrei alzarmi dal letto, rimuovere quel mascara da troppi giorni incastrato tra le ciglia e smettere di ascoltare canzoni post-punk, ché settembre è finito e gennaio non è ancora arrivato.
Il problema è che la mossa, l'unica mossa possibile, è restare fermi. Ho già detto e fatto troppo, sarebbe meglio lasciarsi colare addosso gli eventi, come qualsiasi personaggio di Camus farebbe.
L'ora e il luogo giusto arriveranno, e me ne sarei accorta già da molto tempo, se solo sapessi leggere l'ora con le lancette.

sabato 19 luglio 2014

PIERO ANGELA E TUTTO IL RESTO


"Sai cosa? credo che il rap sia nelle tue corde''
''Haha''
''No davvero.''

A quanto pare per fare rap bisogna essere intelligenti.
O per essere intelligenti bisogna fare rap?
Questo è quanto cercava di spiegarmi AndryMC -o qualunque fosse il suo nome tostissimo da rapper- mentre io gli spiegavo che sì okay forse sono una blogger ma il mio blog non ha senso di esistere, come nessun altro blog e, siamo sinceri, come nessun'altra cosa al mondo.
Insomma sono sveglia da dieci minuti e ho già fatto due grandi errori: iniziare questo post e camminare scalza sul pavimento di casa mia. Se allarghiamo il lasso di tempo di altre sette ore, invece, gli errori quadruplicano.

Ma partiamo dall'inizio.

Il tropismo è la forza che spinge le piante a crescere in una direzione piuttosto che in un'altra secondo luce e gravità.
Il tropismo in letteratura è una forza oscura regolatrice del mondo, che, in barba al nostro volere, ci spinge ad agire in un modo piuttosto che in un altro.
Per me il tropismo sono le cose che accadono perché devono accadere, anche se non fai niente affinché accadano.
Oppure le cose che non accadono, proprio perché fai di tutto affinché lo facciano.
Non che creda in qualche sorta di volere divino o destino o niente a cui non crederebbe Piero Angela, semplicemente ho bisogno di una scusa per giustificare i miei fallimenti.

In un caso o nell'altro ci sono cose che succedono e cose che non succedono, dicevamo, e il fatto che queste dipendano solo in minima parte dalle nostre azioni mi fa venir voglia di stare seduta in silenzio per alcuni minuti e forse decidere di farmi bionda platino.

Una volta qualcuno mi ha spiegato che i bambini fino circa ai due anni non capiscono che gli altri bambini sono esseri viventi e pensanti come loro e non attribuiscono agli altri più valore di quanto non ne attribuiscano a un camion giocattolo.
Forse per me è ancora così. Forse la fase egoistica a cui sono ferma dai 14 anni non è mai passata.
Abbiamo un pedagogo in sala? Qualcuno mi aiuti a capire, perché per il momento mi sembra di essere circondata da maledetti camioncini dei pompieri.
Ho sempre avuto la convinzione di poter prendere gli altri e spostarli sulla mia scacchiera e fare e disfare a mio piacimento, modificare rapporti, situazioni, personalità e tutto il resto. Ho sempre creduto che le persone fossero al mondo per me, sugli scaffali del grande supermercato chiamato Umanità.

Adesso forse capisco che non è il tropismo, né il volere divino, neppure il destino, l'oroscopo o Piero Angela. Ciò che sta dietro le cose che accadono e a quelle che non accadono, le guerre, le carestie, l'economia e tutto il resto, sono le scelte. Degli altri.
E adesso chiudo gli occhi, anche se mi risulta davvero difficile credere che se lo faccio il mondo continuerà ad esistere.

sabato 21 giugno 2014

SAVE THE RHINO


Sono andata a sentire Trentemøller allo Zoom, e ho visto cose che non avrei voluto vedere.
Per non parlare della quantità di cose che avrei voluto vedere e invece non ho visto.
È stato strano, allucinante, meditativo.
Per prima cosa tutto in quel posto mi dava l'impressione di essere tornata indietro nel tempo: leggins stampati ovunque, converse all-star (giuro!), capelli stirati, gonne lunghe e nastrini nei capelli.
Ora: io rispetto il vostro stile boho, davvero; anche io adoravo le gonne a fiori, a dodici anni. Non mi sembra che quello fosse un concerto di Joss Stone, né che fossimo a San Francisco nei fottuti anni '70. Smettetela, siete più anacronistiche di un film di Petersen.
La maggior parte dei presenti era poser. Ma di quei poser senza criterio o gusto, e tutto sommato con quel piccolo ritardo da provincia: ragazze con la shatush, ragazzi con tagli di capelli nazisti. Ragazze coi capelli lunghi che nel 2012 li portavano corti rasati da un lato e che tra qualche mese li tingeranno di blu.
Persone che speriamo non vada mai di moda mangiare merda, o starebbero già prenotando un tavolo al Ristostronzi.
Non ho mai visto un posto con così tante persone fuori luogo e così poca droga, e ho l'impressione che l'uno fosse la conseguenza dell'altro.
Ma andiamo con ordine.
All'ingresso un guardiano dello zoo in tenuta militare e forte accento cumianese fungeva da tornello umano. Non so se vi sia mai capitato di immaginare un guardiano dello zoo, ma se vi è successo sono sicura che assomigliava a QUEL guardiano.
Dopo aver sborsato 20€ e aver lasciato frugare nella mia borsetta, mi consegnano un misero braccialetto di carta verde, che non reca alcun logo, data o scritta. Niente di niente. La cosa mi lascia abbastanza interdetta, poiché speravo che incluso nel prezzo ci fosse la possibilità di sgaggiarsela nei giorni seguenti. E invece no.

Una volta dentro mi aggiro lungo i sentieri piuttosto soddisfatta del fatto che ci sia ancora abbastanza luce da permettermi di vedere gli animali. E invece no, gli unici animali che avvistiamo sono fenicotteri e pellicani. Wow. Molto carini. Ma.dove.sono.tutti.gli.altri. 

Credo li abbiano nascosti, tenuti al riparo dai temibili clubberz della provincia di Torino.
Arrivati all'''anfiteatro dei rapaci'', nome che ti fa viaggiare con la fantasia e immaginare maestosi falchi pellegrini sorvolare in circolo l'arena mentre la folla urlante acclama
Trentemollo, scopro che si tratta di nient'altro che gradinate in finta pietra, con un piccolissimo parterre, braccato a vista dai buttafuori.
Tutti seduti e composti insomma.
Mentre aspettiamo trepidanti ho modo di incontrare tutte le persone con cui ho limonato dai 16 ai 19 anni, letteralmente. Tutte. Questo fatto mi convince ancora una volta che mi trovi nel passato e che debba far in modo di non incontrare la vecchia me o ciò comporterebbe quel genere di casini che succedono quando viaggi nel tempo e fai cazzate.
Appena Trent mette piede sul palco gran parte delle persone - me compresa - si spostano nel parterre.
C'è molto fumo e raggi chiari quasi paradisiaci. Da quel poco che vedo noto che in molti (già perché sono molti
sul palco) indossano cappelli alla Pete Doherty. Mmh.


Ci sono due donne. Fanno la peggiore robot dance che io abbia mai visto.
Il fumo non accenna a dissiparsi e Tre
nt inizia a scaldarsi sul serio.
Io mi trovo tra la folla, in piedi, assai vicina al ''palco''.

Qualcosa nel comportamento delle persone mi turba e mi fa pensare che nessuno di loro sia mai stato a una serata del genere. Per prima cosa applaudono e urlano ''bravo'' nel passaggio da un brano all'altro, proprio come se fossero a un concerto di Mannarino.
Davanti a me una coppia limona ininterrottamente, e non una coppia di sconosciuti sotto MD, no. Una coppia di fidanzati. Limona. In prima fila. E invade il mio spazio vitale. Questa scena mi ha
fatto passare una volta per tutte la voglia di avere un ragazzo.
Durante i brani più tranquilli e riflessivi, quelli in cui si dovrebbe stare tutti in religioso
silenzio e viaggiarsela ognuno nel proprio piccolo universo di cazzi propri, la gente PARLA. Loro parlano. Di qualsiasi cosa. Della partita. Del loro trasloco. Dei fottuti cambi di stagione. E proprio mentre sto pensando irritata a questo fatto, il tizio di fianco a me con maglietta rossa dei MCR (I wish I was joking but I'm not) mi chiede perché sia triste. Penso a una risposta gentile e definitiva, ma poi mi viene in mente che rispondendogli diventerei una di loro, una di quelli che parlano. Mi limito ad alzare le spalle.
Trent è sempre più incazzato (in senso buono) e ci si avvicina alla fine del concerto.
Per l'ultimo brano chiama tutti sul palco, che poi altro non è che un prato con un'inspiegabile pozza d'acqua al centro. Rischio di slogarmi la caviglia, ma supero con agilità gli ostacoli e mi godo il momento più figo e liberatorio della serata.

A seguire Dj Lollino o qualche altro ridicolo nome poco invitante. Mi allontano, c'è una strana atmosfera da festa di paese.
Raggiungo la macchina e mi godo la vera festa della serata: le teddy chips.