lunedì 24 agosto 2015

Etty Hillesum

L'avidità con cui divorano -che sia al sangue godverdomme!- carne di animali in così poco dissimili da quelli che montano, nutrono, amano e per cui spendono milioni, mi dà il voltastomaco. Sopportano me e i loro figli come si sopporta la calura ad agosto o una puntura di zanzara: per forza.
Passo ore intere in silenzio a subire una lingua che non conosco, ad osservare la morte lenta delle vespe per affogamento nello champagne: la stessa fine che in un inferno dantesco farebbero loro, se solo dio esistesse. Quello che mi pesa di più, però, più che l'essere ignorata o che sbaglino la pronuncia del mio nome quando parlano di me credendo che non me ne accorga, è la magnanima autorità con cui mi impartiscono ordini: come se fossi povera, come se avessi bisogno di questo lavoro.
Non sanno perché io sia qui, non sanno che non lo so neanche io. Per riconquistare la mia indipendenza? Suppongo di sì, oppure, più semplicemente, un modo come un altro per sopravvivere ad agosto.
Ma quanto ci mette una vespa ad annegare? Lo stesso tempo che ci mette un cavalluccio marino ad accoppiarsi e io a ritrovare il filo del discorso.
Più che genitori, questi, sono proprietari di cani. Il drammatico problema dei proprietari di cani è che cercano inutilmente di trasformarli in uomini. Non capiscono che dovrebbe accadere il contrario, ossia dovremmo noi essere più simili a loro.
Ecco, quella che si è persa, soprattutto in questi ambienti, è la genuina animalità che dovrebbe dominare le nostre azioni. Dovremmo essere prima di tutto corpo, istinto, sopravvivenza. Che poi sono le stesse stronzate che scriveva Etty Hillesum nel suo diario, stronzate che ora ricorderei se solo avessi studiato per l'esame di pedagogia generale.
Cerco di ricordarmi di questi insegnamenti, ormai di certo annegati in tutti gli spritz di questi ultimi anni, mentre salto sul giocattolo preferito dei bambini ricchi nell'europa evoluta, quella dove non hanno il sole e il mare: il trampolino elastico.
"Springen!" mi urla senza sosta la mia padrona. Crede che sia la sua schiava, e a dire il vero la capisco. Provavo lo stesso sentimento di pietà e pieno potere nei confronti delle mie ragazze alla pari slave. Dicevo a scuola che i miei genitori le avevano salvate dalla miseria dei paesi fatti di sole consonanti da cui provenivano, permettevano che vivessero a casa nostra e addirittura elargivano loro centomila lire la settimana.
Con forza e sottomissione obbedisco, spingo i piedi verso il basso, alzo gli occhi e vedo le oche selvatiche nel campo dietro casa. L'elastico del trampolino mi riporta su e ora quelle oche sono alpacha nel deserto cileno. Chiudo e riapro gli occhi, il vento dritto in faccia, e sono suricata nella savana. Viaggiare è questo, penso, non sapere dove si è, ma essere. Liberi. Ancora un salto e sono a casa.

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